Brevi cenni sull’universo (aperto)
Un detto piuttosto famoso recita più o meno “chi ha come unico strumento un martello, tende a vedere qualsiasi problema come un chiodo”. Sembrerebbe questa la ragione per cui un giurista tenda a vedere qualsiasi tema come un tema giuridico. Mi dichiaro allora colpevole del reato ascritto: vedo l’“open” dal punto di vista giuridico. Inauguro oggi una serie di articoli – sempre che me li pubblichino, dopo questo, anzi, sempre che mi pubblichino questo – in tema di openness, apertura in tecnologia. Mi occuperò in seguito di tutte le sfaccettature dell’open, dall’open source/software libero all’open content, dagli open data agli open standard, dall’open hardware all’open whatever.
Ma cos’è “open”?
Un altro detto famoso recita “non so cos’è la pornografia, ma la riconosco quando la vedo”. Molti pensano di sapere cosa sia l’open-qualcosa soltanto guardandolo. Ma, pur essendoci qualche affinità di concetti tra la pornografia e i diversi tipi di apertura di cui ci occupiamo, le cose non funzionano così. Per riconoscere cosa è “open” occorre saper riconoscere cosa è “chiuso” e dunque sapere in che modo qualcosa di immateriale possa essere chiuso. Guarda caso, e qui torniamo al punto di partenza, la gran parte dei modi in cui ciò di cui ci occupiamo viene “chiuso” è una norma giuridica, si chiami esso “copyright”, “brevetto”, “diritto sui generis”, “segreto”. Pertanto, stabilire se quel qualcosa sia aperto, significa stabilire se ricada, o non ricada, in – o sia sufficientemente libero da – vincoli giuridici che ne rendono difficoltoso o impossibile l’uso, la replicazione, la modifica, la diffusione secondo i dettami dell’openness.
Ecco dimostrato: è una questione giuridica.
Ecce homo restrictivus!
Diciamo la verità, l’uomo tende a rendersi comoda la vita. Non che questa sia una tendenza irragionevole o nefasta, intendiamoci. L’innovazione tecnologica e il progresso nascono da questa spinta. A volte però l’uomo tende a usare qualche espediente per ritrovarsi in una situazione protetta. Fino a non molto tempo fa, diciamo fino al nascere della borghesia e alla rivoluzione industriale, l’ambito della protezione promanava da chi deteneva il potere, fosse esso politico o religioso. Alcuni ambiti della vita e dell’iniziativa economica erano strettamente riservati al titolare del potere, il quale aveva pertanto la facoltà di concedere graziosamente (= per grazia) diritti e guarentigie. Risale a questo periodo il concetto di “patente”, come “permesso”, da cui deriverà il termine “patent”, “brevetto”. Inclusa la nefanda “patente da corsa”, che non abilitava a guidare veicoli sportivi in circuiti motoristici, ma a depredare altre navi in nome del Re.
Nelle scienze liberali e nella tecnica, invece, vigeva, da un punto di vista dell’iniziativa economica, una larga libertà. Potere temporale e potere religioso si affiancavano – è vero – nel controllare la libera espressione del pensiero, e anche nella scienza, il professare certe teorie non portava alcunché di buono. Tuttavia, nei rapporti tra “pari” non vi era alcun limite nell’utilizzo di beni intellettuali altrui. Anzi, il concetto di “bene intellettuale” non esisteva, non esisteva dunque neanche il concetto di “bene intellettuale altrui”. Addirittura, nel sistema delle botteghe, neppure il diritto morale di essere riconosciuto autore esisteva, le opere erano naturalmente collettive. Se poi uno voleva dipingere un San Sebastiano o una Deposizione dalla Croce, lo faceva prendendo a modello, molto spesso sostanzialmente copiando, pezzi di lavoro di qualcun altro. Se uno voleva creare un tessuto identico a quello visto in un viaggio nelle Fiandre, lo poteva fare, se ne era capace. Il rinascimento nacque così, senza copyright, senza brevetti, in parte senza marchi, senza design, senza diritti sui generis, senza modelli di utilità, eccetera eccetera.
È solo con la l’invenzione e la diffusione della stampa a caratteri mobili che si affronta per la prima volta il problema derivante dal fatto che un rilevante investimento come quello effettuato per l’edizione di un libro, possa essere appropriato da qualcuno che si limiti a copiarlo, con poca spesa. Con la riduzione dei costi di stampa, si rende per la prima volta palese il valore “intellettuale” di creazione dell’opera rispetto al costo materiale di produrre il singolo esemplare. Prima, hai voglia copiare Leonardo o Raffaello dipingendo come Leonardo e Raffaello! Ecco che nasce il “copyright”, con lo Statute of Anne (1709-10), che mira a proteggere il diritto dello stampatore sulla possibilità di trarre copie dei libri (ecco perché copy-right).
Ma per le altre opere dell’intelletto, come ci si faceva a proteggere? Se si inventava il modo di rendere la terracotta più leggera, più bella, più resistente, più bianca, come fare a non consentire ad altri di produrla “rubando” l’idea? Semplice: si teneva la cosa segreta (è avvenuto con la ceramica, con la seta, ad esempio). Ma non per ogni cosa tenere il segreto era possibile, alcune invenzioni erano auto-evidenti a partire dal prodotto in sé. Se l’efficienza di una macchina a vapore veniva aumentata facendo passare nella caldaia tubi dell’aria calda, era sufficiente comprare una locomotiva, smontarla e vedere come funzionava (oggi si chiamerebbe “reverse engineering”). Inoltre, tenere segreta una tecnologia non consente ad altri di poterla migliorare: da un punto di vista dell’economia generale affidarsi al segreto non è efficiente per l’innovazione tecnologica. Ecco che intorno alla seconda metà del sedicesimo secolo inizia a fare la sua apparizione in maniera significativa una diversa protezione, quella delle invenzioni industriali, con i brevetti. Un brevetto consente una privativa sullo sfruttamento di una determinata invenzione, a patto di averla completamente descritta, e solo per un limitato periodo di tempo, dopo di che entra nel “pubblico dominio”. La teoria classica prevede che ciò crei un incentivo a intensificare la ricerca e lo sviluppo della tecnica, incentivo costituito dalla promessa di ottenere un limitato monopolio, rendendo un bene scarso ciò che è naturalmente un bene illimitatamente disponibile, ovvero un’idea resa pubblica. È infatti un monopolio la privativa che queste leggi creano, dando a un soggetto il diritto arbitrario di decidere come sfruttare (con alcuni limiti) le proprie creazioni. Diritti che possono essere trasferiti a titolo originario o derivato (licenze).
E ciò sembrò talmente una cosa buona, che il sistema è pervenuto a noi sostanzialmente invariato sino ad oggi. A nessuno pare vero di poter creare, con un colpo di penna, valori economici dal nulla: i “beni intellettuali”. Da allora ci si è mossi solo nella direzione di allargare i termini di tutela, introducendo nuovi diritti e nuove privative, allungando i termini di protezione – anche al di là di ciò che sarebbe naturalmente un “incentivo” –, rendendo in alcuni casi automatico ottenere e mantenere il diritto (come nel caso del copyright), limitando sempre di più lo spazio di ciò che è libero e non soggetto ad altrui diritti, fino alla situazione odierna in cui in pratica vi sono ambiti dove si è sostanzialmente privi di un pubblico dominio significativo (come nella letteratura, nel cinema, nella tecnologia dell’informazione).
I benefici dei commons e la tragedia degli anticommons
Il pensiero comune si è nel frattempo conformato allo stato dell’arte, tanto da far ritenere naturale pensare ai “beni intellettuali” come una proprietà, allo stesso modo di una sedia o di un terreno. Da qui il concetto di “proprietà intellettuale”, che ha dato origine a teorie giusnaturaliste circa la stessa, quasi come se essa sia un diritto universale dell’umanità, e non una creazione del diritto che non è esistita se non nell’ultima parte della storia umana.
Segue l’iperfetazione attuale di protezioni e la moria degli usi liberi a cui assistiamo oggi. Non sazi, inventiamo protezioni ogni giorno. Sembra che se un ambito non sia oggetto di almeno tre o quattro protezioni giuridiche contemporaneamente, sia un reietto della società.
Ma ogni situazione di protezione deve trovare un limite, o si scade nell’arbitrio, nella sopraffazione. Siamo al punto di non poter oggi girare un film senza dover chiedere almeno un centinaio di permessi, per inquadrare un ponte, un edificio, un poster, un prodotto industriale. Di non poter creare un prodotto di un qualsiasi tipo senza dover prendere in licenza centinaia, migliaia, decine di migliaia di brevetti, diventati in molti campi un freno anziché un incentivo all’innovazione.
La situazione è quella riassunta molto bene da Lawrence Lessig col termine “tragedia degli anticommons”, ribaltando un’espressione resa popolare dal titolo di un lavoro di Garret Hardin “La tragedia dei commons” in cui descriveva come il libero (meglio: sregolato) utilizzo di risorse comuni porta alla distruzione delle risorse e all’impoverimento degli utilizzatori. Ma Hardin descriveva i beni fisici, non i beni intellettuali, dove, anzi, la creazione di un “common” consente la moltiplicazione del valore di quel bene.
L’openness, nell’accezione principale, è appunto questo: far rientrare quanto più possibile in un terreno di libero accesso, di libero utilizzo, di libera modifica, di libera redistribuzione, ciò che sarebbe invece ristretto e proprietario. Creare, in ultima analisi, dei commons.
Gli strumenti dei commons sono strumenti legali
Il principale strumento con cui si creano i commons sono di tipo legale. Paradossalmente, è diventato oggi difficile, in certi casi addirittura macchinoso, far sì che un bene intellettuale sia liberamente utilizzabile. In certi ambiti e in molte legislazioni ciò è addirittura in teoria impossibile, in altri casi è estremamente difficile e in molti di più richiede uno sforzo positivo notevole.
Regna sovrana in tale ambito la licenza, che è lo strumento giuridico con il quale chi è titolare di diritti di privativa ne condcede ad altri il permesso (licet = è consentito) di farne ciò che altrimenti sarebbe riservato. Il primo, e in molti casi l’unico, modo per giudicare se qualcosa sia “open” è infatti verificare se chi ne ha i diritti abbia apposto una licenza che consenta agli altri di usare liberamente l’oggetto del rilascio. È una licenza particolare. È gratuita, mentre “tradizionalmente” la licenza è a pagamento. È pubblica, mentre tradizionalmente è individuale. È estensibile da chiunque la riceva dal primo percettore verso chiunque altro, mentre tradizionalmente è intrasmissibile o è trasmissibile solo a patto che chi la cede se ne spogli.
Semplice vero?
Per nulla!
Il concetto di “open” va valutato sotto molti profili, e non sempre gli stessi principi valgono per tutti gli ambiti e per tutti i diritti di privativa. Se un bene immateriale è protetto dal copyright, è sufficiente ottenere il permesso da chi ne detiene i diritti per essere (ragionevolmente) sicuri di essere in un terreno libero. Se è in un ambito protetto da brevetti, la cosa si complica e si può solo escludere che un limitato o definito numero di brevetti possa essere utilizzato contro l’apertura di quel bene, ma non che non esista un brevetto che tale apertura possa prevenire. È come avere cento lucchetti su una porta: toglierne 99 non è sufficiente a entrare.
Altri diritti di privativa, invece, sono del tutto irrilevanti rispetto alla creazione di un common intellettuale. È il caso dei marchi, che ben difficilmente possono essere d’intralcio ai liberi utilizzi di un bene intellettuale (non che non vi sia un uso abominevole dei marchi, ma solitamente ogni abuso è diretto verso altri marchi o segni distintivi).
Il copyleft
Inoltre, le licenze sono strumenti legali che concedono diritti, ma lo fanno in molti casi con alcune condizioni. Condizioni diverse possono essere incompatibili tra loro, creando così una frammentazione dei commons, rendendoli reciprocamente non mescolabili tra loro, o mescolabili in una sola direzione. È questo il caso del cosiddetto “copyleft”, concetto misconosciuto ai più e che è di fondamentale importanza per chi si occupi di openness. Il copyleft, in breve, consiste in una serie di condizioni poste dal titolare dei diritti come contraltare della licenza, per fare in modo che ciò che è stato rilasciato come libero rimanga (be left) libero. “Left” (inteso come “sinistra”) è anche il contrario di “right” (inteso come “destra”), e dunque “copyleft” è anche uno sberleffo a “copyright”, pur non essendone affatto il contrario (un non-copyright, come molti pensano), anzi, essendo l’uso del copyright per mantenere aperto ciò che in assenza potrebbe venire chiuso, proprietarizzato. Copyleft che ha senso – a mio modesto parere è una necessità – in ambiti che vedono la necessità di preservare “ereditariamente” le condizioni di libertà e apertura in tutte le opere che sfuttano il lavoro precedente (è il caso ovviamente del software, in larga misura dei contenuti creativi), mentre non ha affatto senso, anzi, potrebbe essere deleterio, in ambiti che non vedono il copyright, e dunque il concetto di “opera derivata” come elemento principale di protezione, ed è ad esempio il caso dell’open hardware, degli open standard, degli open data.
Prime conclusioni
Brevi cenni, avevo detto, e brevi sono stati, rispetto a quanto ci sarebbe da dire in tema. Vedremo nei prossimi contributi come il concetto di openness si declina e quali sono le implicazioni. Per il momento, repetita iuvant, non è possibile parlare di openness senza considerare che si tratta di vincere vincoli giuridici tramite strumenti giuridici. Anche se, ovviamente, per produrre commons immateriali occorre ben più di una licenza!
[Articolo apparso su TechEconomy http://www.techeconomy.it/2015/09/11/brevi-cenni-sulluniverso-aperto/ ]